La Collina del Salvatore addolcisce il pendio che sale verso la bocca del Vesuvio e, negli ultimi due secoli, è stata scelta come il luogo più adatto da cui studiare il vulcano. Qui infatti sorge la sede storica dell’Osservatorio Vesuviano e sono stati recentemente installati gli strumenti più sofisticati in dotazione all’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. Alle speculazioni scientifiche si sono aggiunte, nel 2018, quelle che scaturiscono concettualmente dal progetto di Lara Favaretto Digging up. Atlas of the Blank Histories, quasi un ideale aggiornamento del gusto sette-ottocentesco che ha fatto del Vesuvio uno dei soggetti naturalistici più ritratti al mondo. Presi insieme, dispositivi scientifici e artistici alludono a una dimensione che supera i limiti del tempo e dello spazio, in cui si intersecano le diverse età del vulcano, la sua superficie visibile e le sue profondità.
Risalendo i fianchi della montagna, lungo le curve di un profilo inciso da secoli nella memoria e nell’immaginario, difficilmente si realizza che lo sguardo attuale si ferma a poco meno di un secolo fa, al 1944, quando l’ultima eruzione ha definito i suoi contorni attuali. Il Vesuvio è una metonimia imperfetta, paradossale: la sua immagine identifica ed evoca potentemente la città di Napoli, eppure la sua struttura interna e forse la sua identità non smettono mai di trasformarsi. Il vulcano è un simbolo certo e allo stesso tempo mutevole, squassato. Sovente ci sono i leopardiani campi di ginestra, che qui crescono con rapidità anche dopo il verificarsi di ogni distruzione. Mentre si osservano dall’alto il golfo e la distesa di cemento che si estende dalle sue pendici fino al centro della città, può succedere di dimenticare che i piedi poggiano su un terreno che ribolle: fertile sì, ma schizofrenico.
La mitologia legata alla formazione del Vesuvio, del resto, annovera molte leggende che si basano sulla mutazione della carne viva in pietra e lava: di volta in volta il Vesuvio è un centauro innamorato di una sirena, Partenope, oppure, secondo le Leggende napoletane di Matilde Serao, un nobile irretito da una delle figlie della casata nemica, la bellissima Capri. Il comune denominatore di queste storie è la rappresentazione di una passione incompiuta, in cui le scosse telluriche vengono trasposte dalla credenza popolare nei fremiti, nel tremore e nella disperazione violenta e senza fine di un amore irrisolto. Sul Vesuvio, poi, si sarebbe verificata addirittura un’esclusiva forma di transustanziazione: il vitigno autoctono da cui viene prodotto il pregiato Lacryma Christi sarebbe stato fecondato dalle lacrime di dolore che Dio avrebbe versato dopo aver riconosciuto, nel golfo di Napoli, un brandello di cielo strappato da Lucifero durante la sua caduta.
Lungo la strada che si inerpica verso il cratere, nel punto in cui si estende la Collina del Salvatore, la sede storica dell’Osservatorio Vesuviano offre ancora ai visitatori la sua facciata ottocentesca rosso pallido, simile a quelle di molti stabili napoletani della stessa epoca. Questo piccolo palazzo è stato, all’epoca della sua inaugurazione nel 1845, il primo istituto scientifico al mondo dedicato alla vulcanologia. Oggi ospita un museo in cui sono esposti i primi sismografi della storia: quello messo a punto dall’illuminista napoletano Ascanio di Filomarino della Torre nel 1795 – un anno dopo l’eruzione che aveva distrutto Torre del Greco, quando, stando alla testimonianza dello storico e militare Pietro Colletta, all’epoca diciannovenne, “fu visto dalla costa del monte colonna di fuoco avanzarsi in alto, aprirsi e poi per proprio peso cadere e rotolare sulla pendice, saette lucentissime e lunghe uscite dal vulcano si perdevano nel cielo, globi ardenti andavano balestrati a grande distanza” - e quello progettato da Luigi Palmieri, uno dei primi direttori dell’Osservatorio, nel 1856. All’esterno, in una radura nelle immediate vicinanze, si trovano i due container in cui l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia ha installato le strumentazioni per lo studio muografico della bocca del Vesuvio.
Quello dell’analisi della distribuzione dei muoni, le particelle elementari generate dai raggi cosmici che provengono direttamente dallo spazio scoperte nel 1936 dal fisico statunitense Carl David Anderson, è il capitolo più recente nella storia dell’osservazione dei fenomeni vulcanici. Registrandone il passaggio o il decadimento attraverso una vasta area si ottiene una “radiografia” della sua struttura interna, impossibile da tracciare attraverso la tecnica dei raggi X. Utilizzata per la prima volta nel 1970 dal fisico statunitense Luis Álvarez per rilevare la presenza di eventuali camere segrete nella Piramide di Chefren, nella Valle di Giza, questa tecnica ha visto alcune delle sue più importanti applicazioni sul vulcano Satsuma-Iwojima in Giappone, sullo Stromboli, nelle cavità del sottosuolo di Napoli e infine sul Vesuvio. Qui viene usata per studiare le trasformazioni avvenute, nei secoli, all’interno della parte alta del cono, che è possibile osservare in questo modo quasi come se la si guardasse in controluce.
Le lastre fotografiche su cui i muoni imprimono la traccia del proprio viaggio dal cosmo attraverso il vulcano poggiano su un terreno che ha subito molte volte, nella sua storia, devastanti cambiamenti. Per averne un’idea basta leggere gli appunti di Palmieri, che nel 1867 descrive gli effetti che l’eruzione di quell’anno ha sulla Collina del Salvatore. L’allora direttore dell’Osservatorio osserva che: “due fiumane di fuoco splendevano sui fianchi del cono, come graziose cascate, le quali però dopo qualche tempo scomparsero improvvise nell’alto e sgorgando in basso del cono, sembrava che novelle bocche di eruzione fossero aperte […] Le lave sul cono s’erano fatte una specie di canale coperto da scorie, un vero cunicolo, entro il quale invisibili scendevano”.
Sotto la distesa di ginestre che ricoprono la radura, fra ciò che resta dei cunicoli scavati dal magma e studiati da Palmieri, si trova la Time Capsule che fa parte del progetto artistico di Lara Favaretto Digging up. Atlas of the Blank Histories. Il contenitore metallico, sotterrato nel 2018, si trova alle coordinate 40° 48’ 37.0’’ N; 14 ° 24’ 39.9’’ E, ed è destinato ad essere riportato alla luce a un secolo di distanza, nel 2118. Al suo interno sono contenuti i carotaggi stratigrafici estratti da luoghi che fanno parte del circondario del Vesuvio e di Pompei, selezionati dall’artista.
La raccolta di carotaggi ha il valore di una campionatura e, allo stesso tempo, di un isolamento della materia stessa di cui i luoghi sono fatti, quasi a volerne preservare la struttura genetica e molecolare, in cui, nei secoli, si sono fatalmente innestati i piroclasti delle eruzioni vesuviane. Al dato materico si aggiunge, tuttavia, la dimensione intangibile del ricordo, del racconto omesso dalla storiografia mainstream ma quasi mai dalla memoria popolare. Dalla terra emergono così immagini isolate, simboli archetipi e tropi narrativi che concorrono a definire le caratteristiche culturali, sociali e antropologiche del vasto insediamento umano che da millenni popola la piana vesuviana. Qui si incontrano i culti misterici praticati nell’ex Fondo Iozzino e che si sono trasformati, attraverso i secoli, nella pratica diffusa degli ex-voto; la leggenda dell’acqua miracolosa del lago di Messigno, che si diceva fosse capace di marmorizzare il legno; il calco di un seno di donna che ispirò a Teophile Gautier spettrali fantasie ambientate nella Villa di Diomede; a Pompei, l’enigmatico quadrato magico della Palestra Grande che rimane chiuso nella sua indecifrabilità, così come i rituali ermetici praticati nel Tempio di Iside che richiamano, a distanza di secoli, la devozione del conte di Cagliostro e della più recente Massoneria; Civita Giuliana racconta dei sinistri traffici sotterranei del Munaciello e di quelli, molto più prosaici e attuali, dei tombaroli legati ai clan della camorra; Villa Sora, il cui passato di maestosa proprietà imperiale si dibatte oggi tra l’abusivismo edilizio che la circonda e la proliferazione delle serre in cui vengono coltivati i fiori che oggi adornano il palco del Festival di Sanremo; e infine Villa San Marco, da dove Plinio il Vecchio assistette all’eruzione che lo uccise.
La Collina del Salvatore diventa, così, un portale fra epoche, luoghi e soprattutto storie, innestato sui cardini scientifici dell’Osservatorio e delle lastre muografiche e innescato dalla Time Capsule. Che giace, nel sottosuolo, in attesa che l’uomo o il Vesuvio scavino nuovi cunicoli riportando alla luce il suo contenuto fisico e, con esso, l’antologia magmatica di immagini, storie, leggende e testimonianze che contiene. Il sommerso, il subconscio rimosso di una terra tornerà allora in superficie, in attesa della prossima colata che lo seppellirà, nuovamente, sotto un’ineluttabile distesa di ginestre.